Netflix racconta Spotify: (algo)ritmo e occhi sul futuro
Scritto da Emanuele Saccardo il Novembre 15, 2022
Va detto: The playlist è folgorante. Ha un (algo)ritmo crescente e una costruzione intrigante.
Questa è la sintesi più adatta per descrivere la serie TV di Netflix che racconta la storia (un po’ romanzata, va da sé) di Spotify.
Dalla genesi fino a un possibile futuro prossimo, il prodotto di marca svedese – come lo è del resto la piattaforma per lo streaming musicale – non è la consueta celebrazione capitalista, almeno non soltanto.
Il docu-drama presentato il 13 ottobre scorso offre diversi (s)punti di vista e sa, di tanto in tanto, fare autocritica.
In tutto 6 episodi con altrettante inquadrature personali del percorso che ha portato il colosso scandinavo a fatturare oltre 4 miliardi di dollari nel 2017. Un altro punto di vista è dunque possibile?
LA MUSICA AL CENTRO DI TUTTO
Sì, un altro punto di vista è possibile, non soltanto riguardo all’architettura frizzante e coraggiosa costruita per raccontare Daniel Ek e la sua creatura on demand.
Grazie al racconto di The playlist, emerge un altro punto di osservazione di quel che è diventata la musica. Un aspetto anche banale, eppure sottovalutato.
Sin da quando la pirateria musicale ha iniziato a minare le fondamenta dell’industria discografica è stato chiaro che per evolvere sarebbe servito un colpo di scena, un cambio di paradigma.
Una volta capito che si può avere qualcosa gratis, è difficile convincere le persone a pagarlo di nuovo e, magari, profumatamente.
A meno che non passi sufficientemente tempo dalla prima rivoluzione.
A meno che non arrivi qualcosa di qualità superiore a riportare la musica al centro di tutto.
IL TEMPO DEL MUSICISTA, IL TEMPO DEL PUBBLICO
La vita è fatta di corsi e ricorsi. Per esempio sono riemersi i vinili dalle polveri di collezioni private: oggi se ne stampano sempre di più, anche di album inediti.
Siamo nell’era digitale, obietterà qualcuno. Vero, ma è proprio la massiccia presenza dell’impalpabilità digitale ad aver fatto sentire il bisogno, la nostalgia di qualcosa di prezioso e fisico da toccare, collezionare.
Allo stesso modo sul tramonto di Napster e l’eclissi parziale di The Pirate Bay, dopo l’ubriacatura iniziale da torrent selvaggio, si pose in primo piano un concetto: il tempo.
Quanto ne serviva per trovare, verificare e scaricare un brano? Tanto, a volte troppo.
Per non parlare della qualità non sempre eccellente dei files.
Certo, esisteva già iTunes, nato ufficialmente nel 2001: qualità ottima, ma non era e non è gratis.
Gli artisti battevano ancora il tempo della cassa, ma non quella della batteria: volevano essere pagati per l’arte che creavano.
Il pubblico viaggiava invece ad altre latitudini.
I tempi erano maturi per qualcosa che tornasse a unire i due estremi.
IL MUSICISTA AL CENTRO DI TUTTO
L’idea, in fondo, era semplice: creare un servizio gratuito di streaming di qualità.
Sì, bravi, facile. Nei sogni, magari. Gli interessi delle case discografiche, delle radio? E i musicisti, come li vuoi pagare?
Ve lo abbiamo detto: niente spoiler. Per queste risposte vi consigliamo vivamente di farvi folgorare dalla serie TV Netflix.
Una briciolina la lasciamo lì, però: se concedi tempo al tempo, il musicista può tornare al centro di tutto. A ben guardare è già così, o no?
Dipende.
I CONCERTI AL CENTRO DI TUTTO
E i live dove li metti?
Al di là di algoritmi, piattaforme, capitalisti rampanti ed esseri umani poco empatici seduti nelle stanze dei bottoni, quello che fa la differenza è sempre la musica.
Se è di qualità dura nel tempo. Qual è un ulteriore modo per scoprire se un artista e la sua musica sono davvero di qualità? Attraverso i live.
Qui a Milano siamo fortunati, possiamo testare questa teoria decine, centinaia di volte all’anno.
Per questo dovremmo riconsiderare un fatto di cui, anche il sottoscritto, ha parlato in un altro articolo: il caro biglietti dei concerti.
Alla luce di quel che emerge con The playlist, noi oggi non paghiamo davvero uno sproposito la possibilità di poter ascoltare dal vivo questo o quell’artista.
Semplicemente paghiamo di meno, se non addirittura niente, per la musica che questo o quell’artista crea.
Spotify permette però loro di essere sempre rapidamente fruibili, dovunque e da chiunque, e di essere pagati molto di più per portare in giro per il mondo ciò che creano.
La compensazione più facile, insomma. Ma che cosa succede a tutti quegli autori che non sono Bruce Springsteen o Bob Dylan? – che pure hanno guadagnato tantissimo vendendo i propri master a Sony, ma questa è storia a parte.
Continuando a non voler fare alcuno spoiler, lasciamo che la risposta la scopriate da soli su Netflix.