Alice in Chains, Layne Staley: le ali negate
Scritto da Emanuele Saccardo il Maggio 31, 2023
È una storia in cui non è quasi mai esistita la speranza.
Un paio di briciole, forse.
Forse sì, sono esistite.
Una aveva il profilo delicato di Demri Lara Parrott, l’altra era una foto sbiadita di Phil Staley.
Queste due briciole lungo il deserto di un asfalto arroventato da dipendenza e successo, sono sembrate essere la scala per uscire dalla scatola, dalla buca, dalla tana del bianconiglio.
Agli occhi, al cuore e all’anima di Layne, fidanzato di Demri e figlio di Phil, sono sembrate per un attimo la chiave per liberarsi dalle catene.
Ma questa è una storia in cui la speranza non ha mai avuto modo di vincere.
Questa è la storia degli Alice in Chains, che per forza è soprattutto la storia di Layne Staley, anima fragile, delicata e schiva.
Il suo breve viaggio su questa terra, affatto lieve per lui in vita, è finito poco più di vent’anni fa, sinistramente e apparentemente nello stesso giorno in cui era partito Kurt Cobain una manciata di anni prima, ma non nello stesso modo eppure forse per radici e ragioni simili.
Una scatola a forma di cuore è pur sempre una scatola che può contenere tutto un uomo, inclusa la sua anima.
Dov’è papà?
La storia degli Alice in Chains non può prescindere dal dolore ingombrante di Layne Staley.
Sebbene la bilancia della band, tutt’ora in vita (ma è un’altra cosa), sia rimasta in equilibrio per un po’ anche grazie alla lungimirante visione artistica di Jerry Cantrell, chitarrista del gruppo, il nucleo rovente è sempre stato il male di vivere di Layne.
Anche a posteriori, potremmo dire.
La sua instabilità nel cercare il passo equilibrato, il punto esatto dove il piede di un uomo trova posto e resta per un po’, non faceva forse per lui. Suo malgrado.
Perché tutto nasce da una semplice domanda: “Dov’è papà?”
Una domanda rivolta spesso alla madre da quel ragazzino biondo e introverso che scrive e disegna, che sente dannatamente tutto ma esterna poco e quasi soltanto attraverso un’acerba propensione artistica.
Dov’è papà?
Papà Phil Staley è un tossico e uno spacciatore, la madre di Layne ha divorziato quando lui era ancora un bambino.
Per quanto Layne possa sapere che Phil non è un buon esempio, è pur sempre la figura che manca, la figura che tanti solchi traccia nella vita di un figlio.
Così Layne, che cresce ai bordi dello Stato di Washington in anni in cui il sottobosco artistico ferve e inizia a covare un desiderio di ricambio e negazione del passato, trova rifugio nella musica, più precisamente nella batteria.
Però sa scrivere, e soprattutto sa cantare: entra immancabilmente in conflitto con i vocalist delle prime band di cui fa parte, il suo è un talento puro, la sua voce arriva e taglia e fa sanguinare.
Non è questione di tecnica, come ha spiegato Giuseppe Ciotta nell’unica biografia attendibile europea su Layne intitolata In Catene, ma di una sfumatura che consola, è un frammento indefinito e autentico che prende alla pancia.
È una sorta di shining musicale, è benedizione divina in mezzo alla maledizione della domanda “dov’è papà?”.
Vorreste barattare il talento per una vita tranquilla e serena?
Il patibolo dell’eroina
Belli come angeli, incrinati come vetri che ancora stanno su per qualche forma di grazia restituita in mezzo a così tanta devastazione interiore.
Ogni passo è mosso in mezzo a sabbie mobili psichiche, lenite in parte dall’abuso di droghe.
Layne già ne faceva uso, i vuoti paterni non si riempiono di sola arte. Ma erano le classiche cose adolescenziali piuttosto comuni: qualche birra, un po’ d’erba.
Poi arriva la cocaina. Ma il cappio glielo fornisce la sua ragazza di allora, Demri: lei esce per cercare la coca, non la trova e ripiega sull’eroina di cui lei stessa già faceva uso.
Da quel momento sotto i piedi di Layne Staley inizia a prendere forma il patibolo.
Per quei disegni del destino che somigliano molto a un romanzo di vita scritto da un sadico, è sempre Demri a spalancare sotto i piedi di Layne la buca, e lo fa nel peggiore dei modi: perdendo la vita per una patologia cardiaca batterica dovuta proprio all’uso dell’eroina.
Da quel momento Layne stringe sempre più il cappio intorno al proprio collo e a nulla valgono l’arte di cui è capace, la sua voce unica, la bellezza struggente dei suoi versi che sembrano quasi un’apologia della dipendenza da eroina e che invece sono una criptica ammissione del problema, la presa di coscienza del punto di non ritorno.
Niente basta a fargli credere che il futuro possa migliorare allontanandolo dal buco nero. Tutto diventa abbandono senza via d’uscita.
Briciole che non bastano
Eppure c’è stato un momento in cui le cose sono sembrate mettersi bene, anzi due. Altre briciole. La prima, l’incontro con il padre.
Gli Alice in Chains stanno registrando il loro primo disco, Phil Staley spunta quasi da un sogno, si complimenta con Layne, sembra voler recuperare il tempo perduto.
Lo stesso Layne, pur diffidente, comincia a crederci.
In breve però il puzzo di marcio viene a galla.
Padre e figlio iniziano a “farsi” insieme. Brutta storia.
Una brutta storia che peggiora quando Layne comincia a sospettare che papà Phil lo cerchi solo per la “roba”. Una mazzata, un’altra.
La seconda briciola cade davanti ai piedi di Layne poco più avanti, nel 1994. A lanciarla è Mike McCready, membro dei Pearl Jam, insieme al bassista John Baker Sanders.
I due si conoscono in uno dei tanti giri di giostra dei musicisti in una clinica riabilitativa.
Una volta fuori, sobri, decidono di formare una super band includendo il batterista Barrett Martin degli Screaming Trees e soprattutto Layne Staley: McCready è persuaso che per il vocalist possa essere utile circondarsi di gente fresca di riabilitazione.
Anche qui le cose sembrano funzionare: ne nasce il super gruppo Mad Season, ne seguirà un solo disco, Above del ’95.
Non basterà a Layne, che nel ’96 vedrà morire l’ex fidanzata e inizierà la discesa verso l’inferno.
Se ne andranno anche lo stesso Baker Sanders nel ’99 e Mike Starr solo un po’ più avanti, nel 2011. Entrambi bassisti, Starr fu il primo degli Alice in Chains.
Il paradiso è sempre accanto, mai o quasi mai è la linea di mezzeria del nostro passo.
Il vetro incrinato del Grunge
Belli come angeli, fragili come vetro incrinato dicevamo. Kurt, Chris, ora Layne.
A volte penso che Eddie si sia salvato soltanto per una serie di circostanze fortuite, o per non essere cresciuto negli stessi posti di Staley, Cobain e Cornell.
Credo che in tanti vorremmo poter tornare indietro, viaggiare verso lo Stato di Washington e Seattle, o Aberdeen, e regalare qualche circostanza fortuita a favore di questi angeli caduti; è retorico, certo, ma erano tutti belli come angeli.
Belli come sono certi artisti, anche quando non sono belli esteticamente, ma flagellati sudano la meraviglia del dolore che forse è quello che cattura l’attenzione più della gioia, vai a sapere.
Vorremmo tornare indietro, dare una carezza a quel ragazzo magro e smunto seduto da solo a un tavolino di un bar, nei suoi ultimi solitari momenti di vita terrena, e dirgli: «Layne, non mollare.»
Non deve finire con una dose mal calibrata di speedball, non deve finire in un appartamento buio, in totale solitudine. Non per forza.
Però sappiamo che non servirebbe a niente, lo sappiamo tutti.
Forse qualcuno avrebbe potuto tentare, soprattutto dopo quell’ultima intervista rilasciata da Layne alla giornalista argentina Adriana Rubio, appena tre mesi prima di morire.
Nelle ultime parole pubbliche del cantante degli Alice in Chains è molto chiara la consapevolezza di avere ormai superato la linea, il punto di non ritorno: «Questa droga è per me come l’insulina di cui un diabetico ha bisogno per sopravvivere. So d’aver compiuto un grande errore quando ho iniziato a usare questo schifo. È una cosa molto difficile da spiegare. Il mio fegato non funziona più, vomito sempre e me la faccio addosso. È un dolore insopportabile, è il peggior dolore del mondo».
Alla fine Layne scrive il suo stesso epitaffio: «So che sto morendo. È da anni che mi faccio di eroina e di crack. Non ho mai avuto intenzione di terminare la mia vita in questo modo, ma so di non avere speranze. È troppo tardi».
So che è stato un viaggio doloroso e tutt’altro che leggero, facile.
Ma Layne merita di essere ricordato tanto come artista, quanto come monito.