Brit pop Sixties: dai Beatles a Bowie, dagli Stones ai Floyd
Scritto da Emanuele Saccardo il Gennaio 25, 2023
Oggi il nostro viaggio ci porterà Oltremanica, più precisamente in Inghilterra. Coordinata temporale: gli anni ’60.
Il decennio d’oro, in un certo senso. Un decennio in cui la british popular music ha preso strade e derive che hanno condizionato le decadi successive.
Ma che cos’è innanzi tutto la BPM?
Definizione e rivoluzione
Di fatto la popular music può essere definita in tanti modi, ma di solito viene inquadrata come quella fetta musicale che non fa parte di una tradizione a trasmissione scritta, come la musica colta per esempio, né di un passaggio orale come la musica tradizionale.
La BPM utilizza invece i mezzi tipici dell’industria discografica e include folk contemporaneo, jazz, pop e rock.
Nello specifico degli anni ’60, la Gran Bretagna sviluppò una variabile nazionale sul mercato e iniziò a produrre forme di musica americana riadattate.
Beat, blues e rhythm and blues britannico furono generi a loro volta esportati proprio in America, dove il sipario sul rock sembrava essersi chiuso addirittura per sempre dopo le abbuffate della rivoluzione anni ’50.
Ciccia ce n’è tanta, insomma.
Da Revolver a Sgt. Pepper’s
E a proposito di rivoluzione, il primo boccone a riaccendere gli animi a stelle e strisce è tutto in due parole: The Beatles.
Se l’Alpha dei Fab Four fu Please Please Me nel 1962 e l’Omega Let It Be appena otto anni più tardi, Revolver rappresenta una sorta di rivoluzione copernicana interna al gruppo.
Questo fu il settimo disco in studio dei Beatles e uscì nel 1966. La parabola di John-Paul-George-e-Ringo è stata breve, almeno in termini di band, ma è stata capace di consegnarsi all’eternità destabilizzando la musica popolare alle fondamenta.
Resta fissata per sempre in poco più di dieci album e decine di idee geniali.
Revolver è forse tra i lavori che più hanno saputo inquadrare il periodo in cui Londra era la capitale culturale del mondo occidentale.
La curiosità verso le esperienze legate all’Lsd, all’Oriente, all’avant-garde; la possibilità di sperimentare tutto, incluse tecniche di registrazione ardite per l’epoca (microfonaggi ravvicinati e registrazioni al contrario, per dirne un paio); i temi complessi come la morte e la trascendenza dai beni materiali.
Tutto questo fa di Revolver uno tra i progetti più brillanti di Lennon e soci, ed è il ponte psichedelico verso Sgt. Pepper’s, disco dell’anno successivo capace di entrare nell’immaginario collettivo come pochi altri.
Arrivano le pietre rotolanti
C’è anche un lato provocatorio del beat, rappresentato perfettamente da blues e rock sporco dei Rolling Stones.
Jagger e compagni vengono al mondo nel 1962 proprio come gruppo beat: nascono un anno dopo i Beatles, cui resteranno legati a doppio filo per tutto l’arco del decennio e anche oltre.
Spesso si è detto che senza i quattro di Liverpool non ci sarebbero state le ‘pietre rotolanti’, cosa senza dubbio vera. O almeno fino a un certo punto.
Già, perché la vena di Mick Jagger, il suo talento animalesco e disinibito per la performance live, le qualità di Richards e Woods, senza contare Brian Jones e i suoi demoni, o il metronomo umano Watts, in un modo o nell’altro sarebbero emersi.
Ne siamo ragionevolmente sicuri. Nella gara ideale con i Beatles, in quel dualismo anche un po’ forzato dal giornalismo del tempo, gli Stones perdono qualche battaglia – nella composizione, per esempio, in cui Lennon e McCartney stanno alla musica come Maradona e Pelè al calcio.
Ma non perdono la guerra, perché loro sono un misto tra George Best e la chitarra diabolica di Robert Jonhson: facce d’angelo con il baratro sempre a portata di mano e il blues degli stati del Sud a danzare nei globuli rossi.
Bowie e l’arte d’essere artista
Come accennato, questi sono gli anni che diedero una svolta fondamentale a moda, musica, radio.
In generale a tutto quello che da lì e fino a fine anni ’70 veniva inquadrato come contro cultura, protesta o cultura underground.
Non a caso il tutto sfocerà nel punk alla fine del decennio successivo, prima del conformismo elettronico degli anni ’80 che ‘finiranno mai più’, parafrasando Ligabue.
Ma restiamo nei Sixties: la swingin’ London, la minigonna di Mary Quant e Carnaby street: simboli più di altri della rivoluzione in atto.
E gli Usa sono affascinati da questo nuovo centro culturale dell’universo occidentale.
Anche Milano ebbe un intenso flirt, per così dire, con le sirene d’Oltremanica.
Il giovane Robert Jones, in arte David Jones e più avanti David Bowie, muove i primi passi in questo contesto.
Un caleidoscopio che gli offre la possibilità di cercare il match perfetto con la sua vera natura: quella del ragazzo che diventerà Bowie è una lunga gavetta fatta di sporadici picchi e tanti passaggi a vuoto.
Ma il tempo del calendario è dalla sua parte, e il tempo culturale comunque gli strizza l’occhio. Sperimentazione è la parola d’ordine.
Così a furia di tentativi arriva l’embrione di Ziggy Stardust, intuibile nel picco datato 1969: sullo sfondo la conquista della Luna, in primo piano ancora l’America.
La colonna sonora perfetta è Space Oddity, sebbene il testo offra spunti importanti più per la riflessione sulla natura umana che per la conquista del cosmo.
Ma la rampa di lancio per David è ormai pronta. Di lì a pochi anni prenderà il volo.
Dal ground control allo space rock
Dallo spazio del Mayor Tom allo space rock di un altro gruppo protagonista assoluto della storia, tanto della popolar music britannica quanto – forse di più – della psichedelia e del progressive.
Parliamo dei Pink Floyd, la cui prima pietra posta ha il nome dei Sigma 6.
Numerosi protagonisti del rock inglese degli anni ’60 avevano frequentato le più rinomate scuole d’arte del Regno Unito, istituti indirizzati principalmente alle arti visive, in particolare a fotografia, pittura, disegno, scultura e architettura.
Fu in una di queste Art school che si formò il primo nucleo dei futuri Pink Floyd, grazie all’incontro tra Roger Waters, Nick Mason e Richard Wright, tre allievi del Politecnico di Regent Street a Londra.
I Sigma 6 cominciarono a esibirsi nel 1963 con cover, tra gli altri, dei Rolling Stones.
Ma fu dal 1965 che le cose cambiarono, da quando cioè entrò nel gruppo Syd Barrett, che assunse da subito la leadership della band.
Fu lui a coniare il nuovo e definitivo nome del gruppo unendo le identità di due bluesman americani, Pink Anderson e Floyd Council.
Tanto Barrett fu un genio, sia della sperimentazione musicale, sia nel maneggiare e piegare parole modellando metriche al suo volere, tanto risultò una meteora.
La sua parabola terminò la corsa il 20 gennaio del ‘68 nel concerto di Hastings.
Dal successivo tenutosi a Southampton, il gruppo si convinse a fare a meno di lui, non solo a causa delle stravaganze mentali di Barrett, ma anche per i positivi riscontri in termini di pubblico.
Ah, piccolo dettaglio: nella band era entrato un altro genio, un innovatore del suono: David Gilmour, destinato insieme a Waters a cambiare le regole del rock.
E ad andare a sbattere contro un muro di mattoni che pose fine alla storia dei Pink Floyd come gruppo.