Led Zeppelin, esoterismo e plagio: storia confusa e stordita
Scritto da Emanuele Saccardo il Maggio 24, 2023
Il motore ruggente della nostra fuori serie ancora una volta ha scavalcato la Manica per far correre le ruote sul lato sbagliato della carreggiata, quella che piace tanto ai britannici.
Viaggiamo nello spazio della fredda e piovosa Inghilterra, ma anche nel tempo verso la fine degli anni ’60.
Se avessimo un navigatore o se esistesse Google Maps, sul nostro schermo vedremmo lampeggiare il puntino rosso di casa Led Zeppelin, la band che più di tutte ha attirato su di sé le ire di chi grida al plagio e lo sdilinquimento di decine di migliaia di fan adoranti.
John “Bonzo” Bonham ha reinventato il concetto di batteria; Jimmy Page ha impresso il proprio modo di stare sul palco in una sorta di calco fisico che in molti dopo di lui hanno replicato, con alterne fortune; Robert Plant ha saputo giocare con la voce e l’immaginario collettivo.
Beh, nel suo caso forse il nessuno è esagerato: Elvis e Jim Morrison mi stanno guardando storto.
A ogni modo, oggi saremo spettatori: di qualcosa di eccezionale, di qualcosa di surreale e suggestivo, di qualcosa di misterico e mistificato.
Con le divinità del rock non si può interagire, ci si può solo sedere a gambe incrociate per abbeverarsi all’eterna fonte di fuoco che elude i decenni.
Il primo contratto e il disco dei record
Sono trascorsi poco più di 54 anni da quella prima pietra miliare targata Led Zeppelin.
Per noi, però, è quasi il presente.
L’eponimo disco d’esordio vedrà la luce il 12 gennaio 1969, ma noi siamo fuori dall’ufficio dell’Atlantic Records: è l’11 novembre 1968, origliando alla porta possiamo distintamente sentire le grida di giubilo per il contratto che la band ha appena firmato con la casa discografica, un contratto che vale 200.000 dollari.
Una signora cifra per quel decennio. Plant e soci stanno per spiccare il volo, e lo faranno alla svelta.
Per cominciare, hanno già di fatto tutto il materiale che compone l’album n.1 della loro carriera.
Intorno ai grandi dischi della musica sono sempre fiorite leggende e polemiche, ma questo in particolare è salito agli onori della cronaca per essere stato registrato in meno di 36 ore e con una spesa poco superiore alle 1.700 sterline.
Tutto questo tra settembre e ottobre. Da novembre a gennaio si lima qualcosa, per esempio adesso ci troviamo di nuovo agli Olympic Studios ed è già il 16 dicembre.
Si lavora di fino per il grande appuntamento con il mercato. Il nocciolo comunque c’è.
I brani, nove meravigliosi diamanti a comporre un diadema scintillante, sono pezzi a metà strada tra omaggio e furto, cover e plagio.
Non esistono dubbi, a ogni modo: l’esordio discografico dei Led Zeppelin è una delle pietre angolari di rock e blues.
Appena il disco vede la luce, è un successo: la copertina che ritrae lo Zeppelin Hindenburgh in fiamme è un pugno in faccia che arriva dritto.
Le canzoni sono altrettanto esplosive e hanno un vestito nuovo per l’epoca.
Certo, se Page e compari avessero anche inserito i crediti dei compositori di certe canzoni, forse le cose sarebbero state più facili…
Le prime, eterne grane
Oltre ad aver attirato le ire della nipote del conte von Zeppelin, la contessa Eva von Zeppelin, che dopo aver visto la copertina dell’album minacciò di querelare la band per uso illegale del nome di famiglia, non tardarono ad arrivare guai legali per il mancato inserimento dei compositori nei crediti dei dischi.
Con la nobile eccezione di Dazed and Confused: il brano venne inciso dal cantautore americano Jake Holmes solo pochi mesi prima, nel 1967.
Nonostante abbia un arrangiamento differente rispetto a quello della band di Bonham e soci, il pezzo ha il medesimo andamento musicale.
Fin qui dovremmo considerare plagio tante di quelle canzoni che non finiremmo più di puntare il dito su questo o quel cantante.
Esistono ispirazione e omaggio.
Ma Dazed and confused resta il caso più eclatante perché quando Page ancora suonava negli Yardbirds, lo stesso Holmes aprì un loro concerto di New York.
Dunque è lecito pensare che il chitarrista dei futuri Zeppelin conoscesse abbastanza bene il brano in questione, cosa che invece negò successivamente e inspiegabilmente.
Anche nel recente passato Holmes, che si è sempre rifiutato di intentare causa alla band, ha considerato la canzone a tutti gli effetti del gruppo inglese.
Qualcuno sussurra ci sia stato un accordo privato tra le parti con l’obbligo di totale riserbo.
La rivista Rolling Stone accusò comunque di plagio la band per Black Mountain side – di Bert Jansch – e Your Time is gonna come – dei Traffic di Steve Winwood.
Senza contare Starway to heaven (rubacchiata alla Spirit dei Taurus) e Moby Dick, con il riff di Watch your step di Bobby Parker ripreso pari pari.
Fortuna vuole che in questo pezzo ci sia il mastodontico assolo di batteria targato Bonham a spostare l’attenzione e mettere tutti d’accordo.
L’intesa (commerciale) con il Demonio
I maligni sussurrano che c’entri il Maligno dietro tanto successo e impunità. Fantasia, certo.
Ma si sa che nel rock il mistero è essenziale quanto le corde di una chitarra elettrica.
Pensate alle leggende e alle teorie del complotto che circondano Paul McCartney, che non sarebbe più lui da quando è morto; pensate a Elvis, che non è mai morto e se la spassa con l’altro re, quello del pop, e Jim Morrison su un’isola chissà dove, tutti incapaci d’invecchiare.
Quindi immaginare che possa entrare il satanismo nell’epopea degli Zeppelin non è strano.
Jimmy Page, per esempio, era un simpatizzante e collezionista di cimeli di Aleister Crowley, l’occultista più in voga degli anni e ’60 molto amato anche dai Beatles.
Per fare un altro esempio, nell’aprile del 1982 il televangelista Paul Crouch sostenne pubblicamente che suonando all’indietro Starway to heaven si potessero distinguere chiaramente invocazioni sataniche.
Detto che i televangelisti non sono mai stati proprio una fonte affidabile, né per il team dell’alto dei Cieli né contro quello in cui ci si diverte di più, va aggiunto in ogni caso che a volte è stato lo stesso Page a metterci un po’ del suo.
Per esempio, quando comprò la tenuta di Crowley in riva al Loch Ness in Scozia (luogo non esente da leggende, ci pare), fece girare la voce che la casa fosse infestata dai precedenti inquilini.
A suo dire la tenuta era stata una chiesa, bruciata, con l’intera congrega a farvi una brutta fine nel mezzo.
Page aggiunse che «Le vibrazioni negative erano già lì, un uomo vi fu decapitato e a volte si sente la sua testa rotolare».
Il chitarrista non ha mai confermato né smentito diversi aspetti di queste vicende, inclusa la versione in cui anche un cane nero infestava la sua tenuta scozzese (da cui la Black dog del quarto disco).
Ha sempre preferito cavalcare il mistero anche come mossa pubblicitaria. Questo è in effetti un po’ maligno.